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Prima Parte



Spencer si trascinò in cucina a fatica, gli occhi a malapena aperti, i capelli sparati in ogni direzione e senza neppure preoccuparsi di indossare qualcosa oltre ai pantaloni grigi del pigiama troppo bassi sui fianchi. Il sole era ancora freddo e pallido a quell’ora del mattino e bastava soltanto ad illuminare abbastanza da fargli evitare gli spigoli.

Brendon sussultò nel vederlo entrare, sforzandosi poi di non guardarlo troppo. Non gli era concesso pensare a certe cose, i suoi genitori gli avevano ricordato più di una volta che sarebbe finito all’inferno se si fosse concesso certi peccati, ma non far caso a Spencer in quello stato era più difficile di quanto avrebbe mai pensato.

“Spen, cosa ci fai qui?” L’uomo sbadigliò, coprendosi distrattamente la bocca col dorso della mano, poi scosse la testa, aprendo gli occhi per il tempo necessario ad accendere la macchinetta del caffè.

“Ho sentito dei rumori”, biascicò quasi incomprensibile. Brendon sorrise.

“Scusa. Non riuscivo a dormire e mi sono ricordato che Hobo era fuori e che potevo venire qui senza pericolo”, Spencer annuì, sospirando sollevato quando qualche attimo dopo la bevanda fu pronta. Se ne versò una tazza e poi ne lasciò cadere qualche goccia nel servizio in miniatura che un giorno Ryan aveva magicamente fatto comparire, porgendo il minuscolo contenitore a Brendon.

“Tranquillo, è domenica, posso dormire più tardi se ho sonno”, disse sedendosi al tavolo. Brendon era seduto al suo tavolo, rosa di plastica, decisamente appartenuto a Barbie prima di lui, i gomiti poggiati sulla superficie lucida e l’aspetto più miserabile che Spencer ricordasse di aver visto su qualcuno, “credevi davvero di riuscire a tornare a casa, eh?” Chiese con simpatia dopo qualche minuto di silenzio, svuotando la propria tazza con gli ultimi sorsi, l’altro annuì senza guardarlo.

“Immagino di essere un ingenuo. Probabilmente siamo bloccati nel tuo mondo”, bevve l’ultimo sorso poi spinse via la tazzina. In silenzio Spencer si alzò a prendersi altro caffè, versandone ancora un po' anche all’amico. Quando si sedette gli spinse la miniatura contro con un dito.

“Sono certo ci sia una soluzione, semplicemente non ci siamo ancora impegnati a trovarla.”

“Non sembri un tipo così ottimista, Spencer Smith.”

“Non sono ottimista, mi piace soltanto risolvere i problemi. E ora finisci quel caffè, so cosa migliorerà il tuo umore”, concluse deciso buttando giù gli ultimi sorsi della bevanda. Brendon ubbidì, più per curiosità che per altro, e due minuti dopo si trovò seduto sulla credenza intento a guardare Spencer che mischiava gli ingredienti dei pancakes.

In silenzio restò a guardare l’uomo concentrato nel rompere e sbattere le uova, spostandosi solo per permettergli di aprire questo o quello sportello senza darglielo addosso, ma di colpo, proprio mentre versava la farina, qualcosa accadde. Brendon non fu certo di cosa avesse detto, probabilmente neppure una battuta così comica, ma Spencer riuscì a trattenersi dal ridere solo qualche istante. Quando riaprì gli occhi, nonostante le lacrime, Brendon era in piedi davanti a lui, le mani sui fianchi e completamente coperto di farina.

“Dimmi che non l’hai fatto”, disse sconvolto, guardandosi le braccia bianche. Spencer scoppiò nuovamente a ridere.

“Scusa io…devo aver soffiato per sbaglio e…” non riuscì a finire la frase, la scena resa troppo comica dall’espressione oltraggiata dell’amico.

“Vuoi la guerra, eh Smith?” Subito prese la rincorsa, saltando poi a piè pari sul manico del cucchiaio. Una piccola nuvola di farina e zucchero si sollevò dalla posata, volò per un attimo e subito si depositò tra i capelli dell’altro.

“Io non l’avevo fatto apposta!” Quasi urlò Spencer, passandosi una mano in testa, senza però reprimere le risate, Brendon ormai appoggiato alla ciotola, soddisfatto e divertito dalla propria vendetta, “vuoi anche tu la guerra vedo”, senza dare al piccolo uomo la possibilità di fuggire prese il bicchiere col latte, lasciandogliene cadere in testa più di qualche goccia.

Brendon lo guardò attraverso i capelli ormai attaccati al volto, la bevanda colata sulle spalle in un terribile impasto con tutto il resto.

“Sei un uomo morto”, sibilò e subito saltò sul bordo della ciotola. Quella barcollò per qualche istante prima di rovesciarsi, facendo schizzare metà del contenuto appiccicoso sul petto e sui pantaloni di Spencer. “Ora siamo pari”, sentenziò soddisfatto Brendon.

L’uomo si guardò per un attimo, facendo una smorfia al pensiero del liquido viscido che gli colava addosso.

“Veramente tu non hai ancora addosso questo”, disse prima di mettere mezzo guscio d’uovo in testa a Brendon, “ti sta bene come cappello, migliore di quelle cose terribili che indossa Ryan”, e prima che l’omino potesse liberarsene Spencer scattò una foto col cellulare, “Jon mi adorerà per questa”, commentò. Impegnato a posare il telefono in un punto asciutto, scegliendo poi la sedia lì accanto, l’uomo fece l’errore di chinarsi. Subito Brendon prese l’ultimo uovo ancora inutilizzato, esitò qualche istante per accertarsi di poterne reggere il peso e poi lo portò fino al bordo, lasciandolo cadere sulla testa dell’amico.

Spencer si lasciò sfuggire uno squittio sdegnato, ancora più comico del disastro che gli colava sul volto, e Brendon non poté far altro che cadere in ginocchio nella speranza, un giorno, di smettere di ridere e riprendere a respirare.

Per un paio di minuti tutto sembrò calmarsi ma la tregua non durò troppo a lungo.

“Oh, povero Bden, tutto sporco”, osservò ironico Spencer, ma il ragazzo lo vide in tempo avvicinarsi col bicchiere colmo d’acqua. Con una piccola rincorsa spiccò un salto e arrivò in faccia all’uomo davanti a lui, aggrappandosi alle sopracciglia e puntando i piedi sul mento per tenersi. Spencer provò a toglierselo di dosso ma non si accorse dell’impasto ormai sul pavimento. Senza neanche capire come si ritrovò steso a terra con Brendon ancora su di lui.

“Tutto bene?” Chiese il più piccolo, scivolando a sedersi sul suo petto. Spencer annuì senza rendersi conto che nel farlo sollevò una piccola nuvola di farina e zucchero. Subito Brendon cominciò a tossire.

“Ehi, ehi, calmo, respira”, gli sussurrò picchiettandogli sulla schiena con un dito fino a che l’attacco non fu passato e, non appena il ragazzo si fu ripreso, iniziò distrattamente a pulirgli il volto col pollice, “credo avrai bisogno di un bagno”, osservò passandogli la punta del dito sul collo.

Brendon neppure ci pensò. Non era qualcosa che avesse mai fatto o a cui avesse davvero pensato, non aveva un’idea precisa di come potesse funzionare nel suo mondo e decisamente non con qualcuno dieci volte più grande di lui, ma subito si alzò in piedi, appoggiò entrambe le mani sul labbro inferiore di Spencer e poi anche le labbra, chiudendo gli occhi alla sensazione di caldo e umido, del dito ancora sul suo collo, ma totalmente immobile.

Spencer non sentì molto, solo la pressione delle due piccole manine e, subito dopo, un leggero solletico dove l’amico gli stava succhiando il labbro, eppure una scossa gli percorse rapida la schiena, e solo all’ultimo istante si ricordò di non poter sospirare. Neanche si rese conto del dito sul collo di Brendon.

“Uhm, qualcuno può spiegarmi perché la mia cucina è coperta di farina e perché il mio migliore amico è steso sul pavimento che cerca di mangiarsi il mio microscopico ospite?” Alla voce di Ryan sulla porta Brendon si gettò subito indietro, lasciandosi cadere sul petto di Spencer, una mano a coprire il volto rosso per l’imbarazzo.

“Credo che…la colazione ci sia sfuggita di mano?” Ribatté Spencer impacciato. Ryan si limitò a scuotere la testa prima di sollevare il piccolo amico in modo che l’altro potesse alzarsi.

“Ti poso sul tavolo?” Chiese, cercando di non pensare a come frasi come quella stessero rapidamente diventando parte della sua vita quotidiana. Abbassando lo sguardo Brendon scosse la testa.

“Portami in bagno per favore”, mormorò talmente piano che Ryan dovette sforzarsi per sentirlo. Confuso lanciò un’occhiata a Spencer ma di colpo quello sembrava aver trovato la sua nuova passione nel pulire una macchia di sporco dal pavimento, una che lo teneva occupato di spalle, col viso nascosto.

“Solo un secondo”, disse Ryan poggiando il ragazzo su un mobile dall’altra parte della cucina prima di chinarsi sul suo migliore amico, “spero non fosse un bacio, Spen, perché baciare una specie di folletto grosso quanto la tua mano sarebbe davvero l’idea peggiore della tua vita”, gli sussurrò all’orecchio. Quando Spencer ebbe il coraggio di alzare di nuovo la testa la cucina era vuota.

**

Brendon si accomodò sulla sdraio che prima del suo arrivo era stata un portacellulare, lasciando che il sole lo distraesse dai troppi pensieri che gli giravano per la testa.

Quando era uscito dal bagno quel mattino Spencer non era più in casa e da allora non si era più fatto vedere. Non che fosse qualcosa di strano, tecnicamente solo Ryan abitava lì, ma l’uomo aveva una stanza tutta sua in quella casa e da quando lui e Jon erano arrivati non se ne era mai andato. Evidentemente quel giorno era diverso, quel giorno aveva rovinato tutto.

“Vuoi parlarne?” Chiese Jon seduto per terra accanto a lui, a gambe incrociate, una piccola chitarra in grembo. Ryan non aveva mai spiegato dove si fosse procurato strumenti musicali in miniatura perfettamente funzionanti, ma ai due omini bastava fossero lì.

“Di cosa?”

“Bren, viviamo in una casa tutti insieme, non è così difficile scoprire le cose e a meno che Spencer non stesse cercando di staccarti la testa a morsi da quello che ha visto Ryan vi stavate baciando”, il più giovane scosse la testa.

“Non c’è niente di cui parlare. È stato un errore, ha fatto scappare Spencer e io andrò all’inferno, punto”, distrattamente Jon si mise a suonare qualcosa.

“Ok Bren, per la millesima volta, capisco che è come sei cresciuto, che è quello che ti hanno insegnato, ma non andrai all’inferno per aver amato qualcuno, ok? Non c’è nulla di sbagliato nel provare qualcosa per Spencer…tranne che gli basterebbe uno starnuto per ucciderti e questo potrebbe essere un problema”, il ragazzo si tirò le ginocchia al petto.

“Anche se fosse ormai l’ho fatto scappare. Come ho potuto essere così stupido?”

“Bren, sono sicuro che Spencer non sia scappato per il bacio è che…prova a capirlo, è tutto talmente strano per…” ma di colpo Jon si bloccò, la frase lasciata a metà. La chitarra volò a terra quando si alzò all’improvviso, ma lui non vi prestò attenzione.

“Jon?” Ma l’amico non ascoltò il richiamo, impegnato a sentire qualcos’altro, qualcosa proveniente dall’interno che lo aveva lasciato con la bocca aperta e gli occhi spalancati.

“Lo…lo conosco…non potrei sbagliarmi…io…” senza una parola più coerente di quelle saltò giù dal davanzale, scivolando sui tubi del termosifone senza troppa cautela, lasciando Brendon a fissarlo confuso.

Non si preoccupò che Hobo potesse intercettarlo, non si preoccupò di quanto fosse pericoloso girare sul pavimento senza farlo sapere agli altri abitanti della casa, semplicemente corse verso la cucina in un tragitto apparentemente infinito. Non appena arrivò, fregandosene di qualsiasi spazio personale e di ogni accordo preso nei giorni precedenti, si arrampicò in fretta sulle pieghe dei pantaloni di Ryan fino a quando gli fu in grembo.

“Jon? cosa…”, ma non gli diede il tempo di finire la domanda, con l’ultimo fiato rimastogli indicò la radio.

“Quella canzone…chi…”, Ryan lo guardò confuso.

“È un cd, sono gli Empires, è una band locale. Jon, cosa ti prende?” Ma anziché rispondere quello si lasciò cadere seduto sul ginocchio dell’amico, coprendosi il viso per un secondo. Quando tolse le mani aveva le guance rigate di lacrime.

“Riconoscerei quello stile ovunque, la voce nel ritornello. Ryan, quello è Tom, quello è il mio migliore amico!” Quasi urlò nonostante stesse ancora ansimando.

“Si, il chitarrista si chiama Tom ma…”

“Non c’è un ma! Non ho tempo per spiegarti, ma devi trovarmi quella band e mettermi in contatto con lui!” Ryan esitò solo un attimo prima di annuire, certo di non poter negare nulla ad un Jon in quello stato.

“Ok, dammi due minuti e lasciami vedere se Pete può aiutare”, rispose deciso, aiutando Jon ad arrampicarsi sul tavolo. Prima che potesse andarsene, però, l’amico gli si abbracciò ad un polso.

“Grazie…trovamelo ti prego. Sono sicuro che sia il mio Tom”, Ryan annuì. Non importava che non avesse idea di cosa stesse succedendo, se fosse servito a far avere quell’espressione a Jon tutto il tempo lo avrebbe messo in contatto col Papa in persona.

Mentre componeva il numero di Wentz, per un attimo, Ryan si chiese dove fosse finita la sua stessa diffidenza di qualche giorno prima.

**

Il quarto d’ora di viaggio fu fatto in totale silenzio. Brendon e Spencer evitarono accuratamente di guardarsi, nonostante fossero a pochi centimetri di distanza, e Jon rimase in piedi sul cruscotto, le mani sul vetro, totalmente incurante di qualsiasi cautela, troppo nervoso per preoccuparsi del clima teso. Quando Ryan parcheggiò davanti ad una piccola casetta a due piani, azzurra, Jon gli balzò sulla gamba ancora prima che il motore avesse smesso di vibrare.

“Sei…sei sicuro che abiti qui?” Chiese incerto. Erano trascorsi anni ormai e per quanto fosse il suo Tom, il suo migliore amico, le cose sembravano essere drasticamente cambiate e, di colpo, era insicuro su cosa fare. Brendon si arrampicò in fretta accanto a lui e gli prese la mano in silenzio.

“Sono sicuro”, commentò Ryan dopo aver controllato un’ultima volta il post-it con su scritto l’indirizzo, “però in caso ci fosse un errore o se lui…” all’occhiataccia di Spencer si bloccò, evitando di presentare a Jon, in un momento simile, l’eventualità che il suo migliore amico si fosse dimenticato di lui, “credo che per ogni evenienza sia meglio che voi stiate nascosti, ok?” I due annuirono, “vieni, Jon”, disse aprendosi il taschino sul petto e lasciando che l’amico vi si rifugiasse dentro, “tu Brendon vai da Spencer”, finì prima di scendere dall’auto, senza dare a nessuno dei due la possibilità di protestare.

Brendon, ora seduto sul volante, esitò fino a quando non gli fu offerto il palmo della mano su cui salire.

“Perché Jon ha bisogno di noi ora, giusto?” Disse mestamente, accettandolo.

“Jon ha bisogno di noi”, confermò Spencer avvicinandoselo al petto, “ma anche perché è tutto a posto.”

“Significa che…”

“Significa che non possiamo ripetere quello che è successo, ma va tutto bene tra noi”, Brendon abbassò lo sguardo per un attimo, ma subito tornò a fissare gli occhi blu dell’uomo.

“Perché?”

“Perché non so come funzioni nel tuo mondo, ma nel mio non posso permettermi una relazione con qualcuno che posso si e no sfiorare con la punta di un dito, che non potrò mai baciare, che per tutta la vita avrei il dubbio di poter uccidere per sbaglio posando un piatto nel posto sbagliato.”

“Ma…”Cominciò ad obbiettare Brendon, però alla fine annuì. Ciò che l’amico stava dicendo aveva un senso e doveva ammettere che erano problemi che lui stesso non si era posto più di tanto. Tutti erano cauti attorno a loro in quei primi giorni, ma sapeva che con l’abitudine le cose si sarebbero fatte più pericolose. In più nonostante lui si sforzasse di non pensare al sesso e di non considerarlo un elemento fondamentale nella sua vita, neppure di quella ipotetica coppia, era certo che per Spencer non potesse essere lo stesso, “andiamo da Jon, potrebbe aver bisogno di noi”, concluse infilandosi nella tasca ed ignorando il cuore veloce dietro di lui.

Arrivarono sulla porta in tempo perché un ragazzo biondo e piuttosto carino l’aprisse assonnato, sfregandosi gli occhi.

“Tom Conrad?” Chiese Ryan, incerto, e quello ebbe appena il tempo di dire sì prima che Jon perdesse totalmente il controllo. Senza pensare alle conseguenze si gettò letteralmente fuori dalla tasca e su di lui, mirando alla spalla e fallendo miseramente. Quando fu certo di essere condannato a colpire il suolo, però, sentì una mano prenderlo al volo e tenerlo sollevato a mezz’aria.

“Jonny?” Jon sorrise come non si ricordava di aver mai fatto.

“Tom…TOM! Ancora ti ricordi!”Urlò gettandosi di nuovo in avanti e questa volta l’amico l’aiutò, permettendogli di arrivare sulla spalla e di abbracciarglisi al collo.

“Come potrei dimenticarmi del mio migliore amico? Jonny non hai idea di quanto mi sei mancato”, gli sussurrò coprendolo quasi tutto con una mano. Jon gli affondò il volto all’attaccatura dei capelli e si concesse di scoppiare in lacrime senza imbarazzo. L’amico lo strinse appena di più, sorridendo dolcemente, gli occhi lucidi.

Brendon assistette a tutta la scena sporgendosi dal bordo della tasca e solo quando sentì l’amico mormorare a Tom tutto il suo affetto e la sua gioia vi si lasciò cadere di nuovo dentro.

Era felice per loro, se c’era qualcuno che si meritava qualcosa di bello nella vita quello era Jon, eppure di colpo si sentiva ancora più solo. Adesso l’amico sarebbe rimasto lì e lui sarebbe tornato a casa di Ryan, l’unico nano in una casa di giganti, l’unico senza una famiglia o degli amici. Diverso e solo, come tutta la storia della sua vita. Disperato si raggomitolò e subito Spencer percepì il movimento e coprì la tasca con una mano tiepida, disse agli altri qualche parola a cui Brendon non prestò attenzione e riprese a muoversi.

Quando si fermò Brendon non sentì neppure più una voce.

“Pensi di uscire?” Scosse la testa, certo che Spencer potesse avvertire il movimento, “Vuoi dirmi cosa hai?” Un’altra scrollata del capo. Spencer sospirò facendolo sobbalzare, “D’accordo, allora te lo dirò io. Hai appena avuto la peggiore settimana della tua vita, ti manca la tua famiglia e sei in un mondo a cui non appartieni con Jon come unico legame col tuo ma, a quanto pare, Jon ha trovato qualcuno che conosce da molto più tempo e tu sei terrorizzato di restare solo”, Brendon sussultò aggrappandosi alla stoffa della camicia. Spencer gli grattò la schiena, o quella che presumeva esserlo, attraverso il tessuto, “ma non sei solo, sai? Perché ci sono io e ho anche promesso che ti troverò un modo per tornare a casa, no?”

“Tu non mi vuoi”, mormorò Brendon triste. Spencer non ebbe bisogno di sentire le parole per intuire cosa avesse detto. Con un sospiro, pur sapendo che non era corretto, lo tirò fuori dalla tasca di peso, tenendolo per i vestiti. Ignorando le proteste del ragazzo se lo portò davanti alla faccia, offrendogli poi la più severa delle sue espressioni.

“Non osare neanche pensare che non voglia averti attorno, chiaro?” Lo rimproverò puntandogli un dito al petto, “posso aver detto che non è possibile una relazione con te ma sei la cosa più piccola, fastidiosa, irritante e maledettamente migliore che sia per caso piovuta nella mia vita e non ho alcuna intenzione di rinunciare a vedere stupidi cartoni animati con te o a nasconderti le mie stesse caramelle prima che tu ti uccida con un’overdose letale di zuccheri. Sono stato chiaro?” Brendon arrossì.

“Ma…ho rovinato tutto”, questa volta Spencer sospirò incurante che l’aria fosse una vera e propria raffica di vento in faccia all’amico.

“Non hai rovinato nulla esattamente come non sei solo, chiaro? Quindi smetti di ripeterlo. E ora andiamo dentro e godiamoci Jon felice e la storia di come Tom sia diventato…grosso”, timidamente Brendon annuì, lasciando che l’altro se lo appoggiasse sulla spalla come al solito e, appena fu lì, gli si abbracciò al collo.

“L’ho sempre detto che sei il migliore, Spencer Smith”, disse prima di accomodarsi.

**

Spencer guardò scettico i due uomini seduti di fronte a lui. Entrambi troppo alti, uno col volto affilato, gli occhi azzurri ed un completo bianco, l’altro dalla carnagione olivastra, i capelli ricci e vestiti che l’ultima volta erano stati usati in qualche discoteca degli anni 80 da qualche tossico privo di gusto.

“Tom, sei proprio sicuro che siano loro gli unici che possono aiutarci?” Chiese apertamente. I due non sembravano i tipi da formalizzarsi. Il riccio, Gabe, ridacchiò.

“Non hai idea di quanto poco ne fossi convinto io, ma se sono qui e…così…è solo grazie a loro”, Jon gli si strinse di più attorno al polso, indeciso se voler ringraziare i due per aver permesso al suo migliore amico di aver finalmente quel sorriso stampato in faccia o se volerli uccidere soffocandoli con le sue piccole manine per averglielo portato via.

“In effetti i primi giorni in casa mia eri piuttosto spaventato”, osservò Saporta, spostando poi lo sguardo su Jon, “ ma son più innocuo di quanto sembri fino a che non si scende nel mio scantinato.”

“Perché? Cosa fai nel…” iniziò Spencer, ma subito si bloccò quando Tom e Sean scossero violentemente la testa in sincrono.

“Niente che tu sia pronto a sapere. Allora, cos’è invece che serve scoprire ai nostri due amici?” Si piegò per studiare Brendon, nascosto dietro la mano di Spencer, e quando si leccò le labbra il più giovane arretrò spaventato, rifugiandosi in una piega della stoffa.

“Come siamo finiti qui, come tornare indietro”, iniziò Jon, alzando poi lo sguardo verso il suo migliore amico per un attimo, “e come si fa a diventare…grandi”, finì poi in un sussurro, ignorando il sussulto e lo sguardo di Brendon.

Ryland e Gabe si guardarono un attimo, parlottarono tra loro poi, con un’alzata di spalle, il latino si spinse indietro con la sedia e poggiò i piedi sul tavolo. Spencer chiuse gli occhi al gesto. Odiava i piedi sui mobili, era una delle uniche cose per cui lui e Ryan non avevano mai smesso di litigare. L’amico vicino a lui gli diede una pacca sul braccio.

“Non ci sono molte spiegazioni da dare. I nostri mondi sono paralleli o qualcosa di simile, quasi uguali, stesse città, la maggior parte della tecnologia e delle tradizioni, perfino quasi tutte le lingue sono simili se non identiche.”

“Com’è possibile?” Lo interruppe Brendon incuriosito.

“Perché hai due gambe e non tre?” Chiese retoricamente , facendo spallucce “non lo sappiamo, fa parte dei misteri dell’universo”, rispose Ryland, ma subito fu Gabe a riprendere, senza dar segno di essere stato disturbato dall’interruzione.

“Per la maggior parte non ci sono contatti, ma a quanto pare di tanto in tanto qualcuno di voi finisce nel nostro mondo. Non conosciamo perfettamente i meccanismi, ma sappiamo che avviene attraverso un oggetto che funziona come portale e che fino ad ora questi oggetti sono stati trovati in possesso solo di persone molto…” fece una pausa, Tom ridacchiò.

“Egocentriche”, concluse per lui. Gabe sorrise, Brendon scelse ancora una volta di stringersi attorno al pollice di Spencer, che subito iniziò a massaggiargli distrattamente la schiena con l’altro.

“Perché?” Chiese Ryan.

“Perché in mano di persone come me o Pete? Non ne ho idea, forse siamo più sensibili alla possibilità che ci sia qualcosa in più o abbiamo più forza psichica o non ne ho idea. Perché alcuni finiscono nel nostro mondo, invece non è ancora chiaro, ma tutti quelli che l’hanno fatto erano profondamente infelici e bisognosi di prendere una decisione sulla loro vita.”

Jon si voltò verso Tom, ignorando tutti gli altri.

“È... è per questo che sei scomparso con Sean? Sapevo che non eri felice di quello che facevi ma…” dolcemente Tom lo fece salire su una mano, portandoselo all’altezza del viso.

“Jonny, non ero infelice, ma non sarei neppure mai stato felice. Suonavamo in band sempre più scarse e disperate, non avevo un lavoro e vivevamo in cinque in un monolocale. E poi di colpo mi trovo in questo mondo dopo essere scappato in un vicolo con Sean solo per far sesso e trovo Gabe coi suoi racconti sul Cobra, e la sua band e la musica nel locale di Pete che noi ci saremmo solo sognati”, Jon scosse la testa.

“È per questo che non sei tornato? Che mi hai lasciato indietro a crederti morto? Ti ho cercato, Tom! Mi sono disperato e alla fine ho mollato tutto, perfino la mia vita!” Il tono di Jon era arrabbiato e ferito. Brendon aprì bocca per dire qualcosa, ma Spencer gli fece cenno di no. Anche se stava avvenendo in pubblico non era loro quella discussione, era qualcosa di privato tra i due amici, qualcosa che avrebbero dovuto sbrigare da soli.

“Io...volevo tornare, te lo giuro, ma continuavo a dire ‘domani, domani, domani’ e di colpo mi sono svegliato un mattino e sia io che Sean eravamo…beh, grandi”, Jon scosse la testa, poi si voltò verso Gabe.

“Come hai fatto a trasformarlo?” Chiese, questa volta senza nascondere la rabbia. Ne aveva il diritto, qualsiasi cosa quell’uomo con la maglietta fluorescente avesse fatto gli aveva portato via per sempre il suo migliore amico, aveva tutti i diritti di odiarlo.

“Non ho fatto niente. A quanto pare sono le regole del Cobra o qualcosa di simile. Se prendi una decisione o se sei profondamente felice ti si riapre il portale per tornare a casa oppure…beh, oppure puoi iniziare a giocare col gatto anziché essere il gatto a giocare con te. Immagino che Tom fosse felice del nuovo mondo e delle infinite possibilità, quindi…”

“Come facciamo io e Brendon?” Chiese ancora, deciso, saltando giù dalla mano e sul tavolo, avvicinandosi poi a Gabe. Quello si sedette di nuovo al tavolo e lo toccò con la punta di un dito.

“Cosa ti fa pensare che sia io a potervelo dire? Pensate cosa vi ha portato lontano dal vostro mondo a qui e aggiustate le cose.”

“Se volessimo restare?” Chiese, ma Brendon scosse piano la testa. Non poteva lasciare la sua famiglia, non poteva far passare a loro ciò che aveva dovuto affrontare Jon.

“Se davvero decidi che la cosa giusta per te sarebbe stare con Tom…beh, succederà, lui ne è la prova, se invece scoprite di voler tornare indietro parlerò tra poco con Pete e gli dirò di portarvi qualsiasi sia il portale in questo caso.”

“Se…se torno a casa potrò ancora tornare qui?” Domandò Brendon dopo qualche secondo. Gabe ci pensò un attimo, scambiandosi un’occhiata con Ryland.

“Non conosciamo queste regole, nessuno ci ha mai provato. Tutto ciò che posso dirti è che si può diventare grandi una sola volta e pare che funzioni tornare piccoli entro tre giorni. Non so di nessuno che è tornato nel vostro mondo e poi di nuovo qui, ma forse non erano interessati”, Brendon annuì lentamente.

“E voi? Potete diventare piccoli e venire da noi?”

“Teoricamente”, rispose Ryland, “ma non conosciamo nessuno che l’abbia fatto. Non siamo sicuri che la cosa possa essere reversibile e fino ad ora nessuno ha voluto provare a diventare della dimensione giusta per essere mangiato dal proprio cane o calpestato dal migliore amico.”

**

Brendon continuò a dondolare i piedi oltre il bordo del comodino, picchiandoli contro il legno.

Da due notti ormai Ryan e Jon avevano deciso di occupare la stanza in cui era la loro casa per provare a mettere insieme alcuni pezzi di qualsiasi cosa stessero scrivendo e lui, dopo essersi fatto insegnare da Spencer almeno a suonare la batteria, si era direttamente trasferito nella camera dell’amico. Il letto di Barbie si era finalmente rivelato utile per l’evenienza, ora strategicamente sistemato sul comodino di Spencer, e Brendon doveva ammettere che le lenzuola e il copriletto bianchi a rose rosa gli piacevano più di quanto avrebbe mai detto a voce alta.

“O la smetti o ti schiaccio con una ciabatta”, protestò mezzo addormentato Spencer, girandosi nel letto.

“Stai approfittando delle tue dimensioni, Smith?” Chiese Brendon saltando sul cuscino accanto alla sua faccia, grato che l’altro fosse finalmente sveglio. Era nervoso e confuso, non voleva stare da solo.

“No, è solo che non ho ancora trovato una ciabatta abbastanza grossa con cui minacciare Ryan”, scherzò nonostante la voce resa roca dal sonno, poi allungò una mano per accendere a tastoni la abatjour, “allora, cosa succede?” Questa volta il tono era paziente, tranquillo. Brendon si sedette sul cuscino, a pochi centimetri dal suo volto.

“Niente è che…devo tornare indietro Spencer, non posso pensare che i miei genitori, le mie sorelle, si stiano disperando per me, non posso lasciarli così”, Spencer annuì appena.

“Tornare la è quello che vuoi?” Brendon ci pensò qualche attimo prima di rispondere.

“No, non credo, io…non penso di voler davvero tornare in quella casa in mezzo al nulla a giocare con le capre. Non voglio tornare dove mi avrebbero condannato all’Inferno per il bacio dell’altro giorno o per quello che…perché mi piacciono gli uomini più delle donne”, si coprì il volto con le mani per un attimo, “decisamente non voglio tornare in quel mondo dove a dodici anni mi hanno terrorizzato alla morte solo perché mi hanno trovato a…”, fece un rapido cenno verso il proprio inguine, “voglio stare qui e poter amare e conoscere il mondo e ascoltare musica vera, che non siano cori da chiesa, voglio mettermi jeans aderenti e guardare la tv tutta la notte. Ma non sarebbe giusto. È la mia famiglia, mi hanno amato e cresciuto e non posso lasciarli così. Il mio posto è la.”

“Quindi pensi sia giusto rinunciare alla tua felicità?” Non disse ‘nostra’. Si impegnò per non farlo, per soffocare le parole nella sua stessa gola. Non doveva neppure pensarci.

“Non sono mai stato infelice laggiù, solo insoddisfatto e frustrato.”

“Saporta ha reso chiaro che i portali si aprono per una ragione”, Brendon ci rifletté un attimo poi annuì.

“Ma ha anche reso chiaro che si riaprono una volta presa la decisione e scelta la propria strada e la mia è tornare dalle mie persone, dalla comunità che mi ha cresciuto”, in silenzio Spencer gli poggiò un dito su una coscia, facendolo rabbrividire.

“Bren”, sussurrò a fatica, “non voglio che tu te ne vada. Voglio che resti, voglio capire perché sei entrato così nella mia vita, cosa…” il più piccolo però scosse la testa, poggiando entrambe le mani sul dito ancora su di lui.

“Non farlo”, chiese sottovoce, gli occhi chiusi, “ti prego non chiedermelo o non sarò capace di tornare indietro e non potrei mai essere felice pensando di essermi lasciato alle spalle la mia famiglia disperata. Ti prego”, ripeté. Spencer annuì comprensivo. Poteva capire ciò che provava, lui stesso avrebbe messo la sua famiglia, e Ryan, davanti a tutto il resto, anche a se stesso, ma questo non rendeva più facile accettarlo.

“Vorrei solo che le cose fossero state diverse”, si sforzò di nascondere l’emozione nella voce. Brendon annuì, lui riprese, “vorrei… vorrei averti potuto avere davvero. Darti un bacio vero, fare l’amore almeno una volta”, non era certo di quando quella conversazione si fosse trasformata in un dialogo da fotoromanzo o di quando le ultime tracce della sua virilità fossero magicamente scomparse, ma non appena Brendon si mise in ginocchio e si mosse verso le sue labbra, baciandolo come aveva fatto qualche giorno prima, decise all’istante che ne era valsa la pena.

Neppure questa volta sentì davvero le labbra del compagno, ma quando si scostò riaprendo gli occhi lui era lì, in ginocchio sul cuscino, avvolto in quei boxer azzurri a cuoricini che Jon tanto aveva preso in giro, le mani ora sulle proprie ginocchia, incerto.

“Grazie”, sussurrò, quasi fosse in realtà una richiesta di perdono. Brendon chiedeva scusa per aver scelto la propria strada. Spencer dovette trattenersi per non stringerselo al petto. Schiacciarlo non sarebbe stato un buon finale.

“Va tutto bene, dormiamo”, disse invece, arruffandogli i capelli. Senza una parola il ragazzo si stese sul guanciale e subito l’altro gli mise una mano sopra, quasi a proteggerlo. Sorridendo Brendon si abbracciò al suo pollice, vi si accomodò e, finalmente, riuscì a lasciarsi andare alla stanchezza.

Spencer restò sveglio ad osservarlo.

**

Quattro giorni. L’erba era ancora verde come la ricordava, la quiete riempiva la vallata disturbata solo dal canto degli uccelli e i cuccioli che giocavano in cortile erano quasi in grado di strappargli un sorriso. Quasi.

Quattro giorni prima aveva salutato tutti, Jon compreso, ed era tornato a casa. Aveva immaginato la cosa come un qualche viaggio epico ma in realtà tutto si era risolto con lo scoprire che la prima volta il portale era stata una collana di fiori creata da un Wentz troppo ubriaco e ora appesa nella sua cucina. Una volta presa la sua decisione, ed un profondo respiro, alla presenza di Pete e di Gabe, per sicurezza, Brendon l’aveva attraversata e, anziché trovarsi nel bosco che tanto temeva era finito direttamente sul retro della casa di Jon. Dylan e Clover erano tornati a casa con lui.

Le prime ore erano andate bene, tutta la famiglia, l’intero villaggio a dir la verità, l’aveva festeggiato e coccolato, sua madre aveva pianto, sua sorella aveva pianto, l’altra sorella aveva semplicemente sospirato, tornando a cambiare l’ennesimo pannolino. Poi erano arrivate le domande e da lì tutto era andato a rotoli. Vista la sua spiccata incapacità a mentire Brendon aveva scelto la verità, corredata di decine di fotografie per evitare di essere subito rinchiuso in manicomio. Sua madre aveva pianto ancora di più, lamentando come suo figlio e ‘la nuova tecnologia del diavolo’ si prendessero gioco di lei per coprire ‘chissà quale peccato mortale’, suo padre aveva prima minacciato di diseredarlo e poi di punirlo come mai prima se non fosse stato sincero, i fratelli avevano spalleggiato il padre e una delle sue sorelle non aveva aperto bocca, chiudendosi semplicemente in camera sua. L’altra, Kara, ora occupata con un biberon, gli aveva rivolto la parola solo per qualche istante, con sguardo triste. ‘Davvero hai rinunciato al sorriso che avevi lì per tutto questo?’ Aveva chiesto e quelle parole ancora bruciavano nella mente di Brendon. ‘Tutto questo’ era la sua famiglia, la sua vita, ciò che aveva sempre conosciuto e per cui era destinato, eppure dopo quattro giorni lì, a curarsi da solo un cuore spezzato, sforzandosi di pensare a Spencer, mentre tutti intorno a lui lo guardavano sussurrando come un ragazzo simile fosse una rovina e un disonore per la loro comunità, cominciava a dubitare di aver preso la decisione giusta.

“Quindi Jon è rimasto là, eh?” Chiese sua sorella sedendosi sul gradino accanto a lui, il neonato tra le braccia. Brendon annuì.

“Mi credi?” Chiese incerto, lei alzò le spalle impercettibilmente.

“Ho dei problemi sul mondo dei giganti, ma ovunque tu sia stato e chiunque tu abbia incontrato per cui ora valga la pena affrontare tutto il dolore …non può essere una fantasia”, Brendon sorrise appena, “e chiunque fosse…sei sicuro valga la pena rinunciare per avere questo?” Chiese facendo un gesto vago attorno a lui.

“Tu sei qui.”

“Io non ho avuto altre scelte e neppure il coraggio di cercarle, ma tu Brendon…sei stato via, hai affrontato il mondo, hai trovato qualcuno e hai avuto il coraggio di soffrire per lui, anche se è un uomo, tu sei destinato a molto più di questo.”

“Vi avrei perso, vi avrei fatto soffrire”, lei non disse che stavano soffrendo comunque, che quello che era tornato, per i loro genitori, non era altro che il figlio del diavolo, non disse che non era più il benvenuto dopo i suoi racconti, non disse che sua madre aveva ormai capito che viveva nel peccato e neppure che non c’era nulla da perdere lì. Lei rimase in silenzio, ma il suo sguardo parlò più forte di mille urli.

“Nessuno di noi vale la tua felicità”, dichiarò invece. Brendon scosse la testa.

“È troppo tardi ormai”, rispose solo, nascondendo il volto contro le ginocchia piegate. Era vero, anche se avesse voluto tornare indietro, anche se avesse trovato il coraggio di lasciare tutto, per sempre, non avrebbe saputo come fare. Nessuno sapeva se c’era una via di ritorno. Avrebbe potuto affrontare di nuovo il bosco, questa volta da solo, ma sapeva che probabilmente non avrebbe funzionato, che era solo un caso se la prima volta il portale si era aperto lì.

Certo, avrebbe potuto lasciare la fattoria, il villaggio, e spostarsi in una grande città, farsi una vita, magari provare a cantare come gli era sempre piaciuto fare e come perfino Ryan gli aveva consigliato, definendolo altrimenti un talento sprecato, ma non valeva la pena di rischiare tutto per niente, per poi trovarsi solo. Non dopo aver rinunciato a Spencer e a tutti i suoi amici per tornare lì. Tanto valeva restarci.

Quando alzò di nuovo lo sguardo sua sorella e il bambino erano rientrati in casa.

**

Al settimo giorno Brendon rubò due pagnotte, una fetta di torta, del latte e si rifugiò nella vecchia casa sull’albero, quella che ormai da anni nessuno usava più. Dopo una breve lotta con un paio di ragni ed un’animata discussione con uno scoiattolo si conquistò il piccolo tavolino, sotto cui neppure gli si infilavano più le gambe, e il materasso semi distrutto dalle intemperie. Poco importava, tutto era meglio che dover scendere ed affrontare ancora gli sguardi di chiunque attorno a lui.

Dopo mezz’ora si alzò per togliere dal muro davanti a lui la foto che aveva appeso poco prima. Lui e Jon seduti sulle spalle di Spencer e Ryan. Era stato Tom a scattarla. Un’ora dopo la riappese.

Quando cominciò a piovere neppure considerò di tornare in casa nonostante l’acqua impietosa tra le vecchie travi di legno.

“Credo che dovresti venire giù”, quando sua sorella fece capolino, per la prima volta senza neonato in braccio, Brendon non avrebbe saputo dire da quanto era lì e tantomeno quanto a lungo era piovuto. Sapeva solo di essere fradicio, infreddolito e neppure vagamente pronto a sedersi in sala con la famiglia a vedere l’ennesimo documentario sulle missioni giovanili.

“Vai a coprirti, non ho bisogno di niente”, mugugnò nascondendo il volto sotto la coperta ormai zuppa.

“Non ti ho chiesto se hai bisogno di qualcosa, ti ho solo detto che è il caso che tu scenda, e in fretta. C’è qualcosa che devi vedere”, sbuffando il ragazzo si mise a sedere.

“È una scusa peggiore di quelle che inventavi per far fare a me le commissioni e guardare la televisione di nascosto”, protestò ma si avviò lo stesso verso la scaletta, incapace di resistere a sua sorella. Scese lentamente, i pioli resi scivolosi dall’acqua, e solo quando fu coi piedi per terra, dopo essersi trattenuto dall’urlare una decina di espletivi poco carini all’essere atterrato nel fango, si rese conto che sua sorella era scomparsa.

“Kara? Che scherzo…” cominciò scocciato, guardandosi intorno e la sua attenzione fu attirata da qualcosa che non era decisamente la parente. Quasi davanti alla porta di casa, confuso nella cortina di pioggia, un uomo stava fermo immobile, le mani strette a pugno lungo i fianchi, lo sguardo fisso su di lui.

Brendon non aveva mai creduto a Babbo Natale o alla fatina dei denti, era stato invece certo che esistessero le sirene e i tappeti volanti mentre, nonostante la sua religione, non aveva mai preso una decisione vera e propria riguardo a miracoli o desideri. Fece un paio di passi avanti e di colpo la sensazione che i Miracoli fossero qualcosa di vero lo avvolse.

Non aveva senso, sapeva che le cose non funzionavano così, che non andavano al contrario, eppure il suo istinto gli diceva che non era un’allucinazione e che non stava sbagliando di persona.

“Spencer?” Chiese sottovoce. L’altro sembrò sentirlo nonostante il temporale perché annuì, facendo un passo avanti sotto alla luce del piccolo lampione accanto alla porta, “non può essere, tu sei…”, ma le parole gli morirono in gola mentre avanzava lentamente, certo che se fosse corso da lui l’altro sarebbe scomparso in una nuvola di fumo o che si sarebbe svegliato solo sul materasso nella casetta sull’albero.

“Sono io”, disse quello, incerto se la voce gli tremasse per l’emozione o per il freddo, “non so come sia possibile ma…sono io”, e a quelle parole Brendon decise che valeva la pena rischiare, che avrebbe sopportato la delusione e la faccia nel fango. Corse in avanti, le braccia protese come nel più patetico dei film e dopo i secondi più lunghi della sua vita picchiò contro il corpo dell’altro uomo, stringendogli le braccia al collo.

“Spencer! Sei qui!” Quasi urlò, eccitato, ma subito la sua voce cadde in un sussurro fatto solo per l’orecchio accanto alle sue labbra, “credevo di aver perso la mia occasione, credevo che non ti avrei più rivisto. Volevo tornare, ma non sapevo come. Volevo…” ormai le lacrime erano troppe per poter essere mimetizzate dalla pioggia. L’altro gli passò le braccia in vita, stringendolo.

“Va tutto bene, Bren. Sono qui io, è tutto a posto. Siamo di nuovo insieme e”, scoppiò a ridere, allontanò per un attimo Brendon dal suo corpo e poi lo strinse di nuovo un secondo dopo, “sei delle mie dimensioni! Posso abbracciarti, posso toccarti senza paura di farti male, posso”, il ragazzo lo interruppe spostandosi appena.

“Puoi baciarmi?” Chiese quasi timidamente. Spencer rise, euforico, e subito gli passò una mano tra i capelli e poggiò le labbra sulle sue.

Fu un bacio lento, ma non privo di vigore. Romantico e fine a se stesso eppure intimo come il più intenso degli amplessi. Furono le loro lingue che per la prima volta si incontrarono permettendo di scoprire ed imparare il sapore l’uno dell’altro, la sensazione dei respiri che si fondevano, i corpi finalmente vicini come Brendon non li aveva mai sentiti neppure quando era stato nella tasca dell’altro uomo.

Quando si scostarono, privi di fiato e con le gambe leggermente tremanti, Brendon lo abbracciò di nuovo.

“Sei qui”, ripeté, quasi avesse bisogno delle parole per crederlo. Spencer gli inclinò la testa all’indietro e lo baciò di nuovo.

**

Brendon trascinò i piedi fino a dove Spencer era steso sull’erba a cercare di giocare coi gatti di Jon, poi vi si lasciò cadere accanto.

“Kara mi ha detto che vuoi parlarmi”, disse triste. Spencer si spostò in modo da poggiargli la testa sulle ginocchia e subito le dita dell’altro gli si intrecciarono ai capelli.

“Non credevo lo facesse, qui tutti mi guardano come fossi il diavolo in persona”, Brendon sorrise debolmente.

“Sei uno straniero che ha confermato la storia del pazzo del villaggio, credo avrebbero più rispetto per il Diavolo. Ma mia sorella non è come loro”, Spencer annuì.

“Bene, mi fa piacere sapere che almeno una non mi rincorrerà col forcone. In realtà quello che volevo era…chiederti le tue intenzioni?” Chiese incerto. Brendon lo guardò perplesso.

“Intendi?”

“Non voglio forzarti in nessuna direzione, ma se le cose da piccoli a grandi funzionano come al contrario…sono qui da un giorno e mezzo e presto la decisione diventerà definitiva…” Gentilmente Brendon lo spinse per una spalla fino a farlo sedere di fronte a lui.

“Spencer Smith, mi stai dicendo che devo decidere io da solo se resterai qui con me per sempre o tornerai grande?”

“Ammesso che entrambe le opzioni includano lo stare con te”, aggiunse. Brendon abbassò lo sguardo.

“Voglio mettere le cose in chiaro prima di dirti cosa voglio fare. Pare che un intero consiglio del villaggio abbia deciso che è meglio che me ne vada. Come sai il mio mondo è uguale al tuo, quindi ci sono un’infinità di possibilità, di posti da vedere, di carriere, vite, al di fuori di questo maledetto paesino che è rimasto duecento anni indietro”, Spencer annuì, incerto di dove quel discorso potesse portare, “ma se vado in una qualsiasi di queste città o io perdo te o tu perdi i tuoi amici.”

“Quando sono venuto qui ho accettato la possibilità di non vederli più”, Brendon annuì.

“Eppure so per certo che ti ucciderebbe perdere Ryan”, Spencer abbassò lo sguardo, non poteva mentire su quello, entrambi sapevano che era vero. Il ragazzo riprese a parlare, “io ho rinunciato a te e agli altri per tornare e tutto ciò che ho avuto è stato solo odio. Non ce l’ho con la mia famiglia, so come sono fatti e non mi aspettavo molto altro, ma non perderò tutto un’altra volta per loro e non lascerò che per loro tu perda la tua felicità.”

“Se scegli il tuo mondo puoi rivederli…” Brendon abbassò lo sguardo.

“Non voglio rivederli. Non sono pronto a perdere gli altri per loro. Se mi volessero riabbracciare..beh, sappiamo entrambi che a quanto pare basta desiderare qualcosa abbastanza e i portali ci accontenteranno, sono certo troverebbero un modo.”

“Potrebbero non farlo mai, Bren. Potresti perderli per sempre”, il ragazzo si morse il labbro poi annuì impercettibilmente.

“In quel caso saprei di aver preso la decisione giusta ad andarmene per sempre, non sarebbe neppure più una perdita. Voglio venire via con te, Spencer Smith. Voglio il tuo mondo e i nostri amici e una casa in cui poterti almeno baciare senza che uno dei miei parenti sbuchi urlando al peccato. Voglio essere felice con te.”

“Non perché sei costretto?”

“Solo perché tu sei il mio Spencer”, rispose solenne prima di gettarsi sopra di lui e spingerlo sull’erba per baciarlo meglio.

**

Brendon si strinse più forte contro il braccio di Spencer, la mano dell’amico, del compagno, nella sua, in una presa che non aveva allentato per tutto il viaggio.

Gli scalini, ancora altissimi, davanti a lui, erano diventati familiari nelle settimane precedenti, così come la casa chiara ed immensa, eppure questa volta sembravano diversi, estranei. Questa volta, se avesse scelto di scalarli e di entrare nell’abitazione sarebbe stato come firmare il contratto finale, come legittimare la sua decisione, una da cui non sarebbe più potuto tornare indietro. A quel punto non aveva dubbi fosse la cosa giusta da fare, che fosse ciò che desiderava, ma l’ammetterlo in via definitiva, lo scalare quel gradino e deliberatamente voltare per sempre le spalle a tutto ciò che aveva conosciuto fino a quel giorno era comunque la cosa più difficile che avesse mai dovuto fare.

Spencer posò anche l’altra mano attorno alla sua, stringendogliela.

“Andrà tutto bene, Bren. Prometto che non ti lascerò solo e potremmo iniziare da capo insieme. Potremmo mettere su una band con gli altri o qualsiasi cosa tu voglia, ok?” Il ragazzo annuì. Non era quello che gli interessava, non il mettere su un gruppo o vedere i suoi capricci realizzati. Se era lì, era solo per Spencer e Jon e Ryan. Per Tom e Sean che aveva appena iniziato a conoscere così come Gabe e tutti gli altri. Se era lì il motivo era che, semplicemente, quelle persone sembravano la famiglia che aveva sempre desiderato, quella che gli avrebbe coperto le spalle e assecondato i suoi desideri, che gli avrebbe ricordato quanto valesse e raccolto da terra se fosse caduto. Tutto ciò che degli stupidi legami di sangue non gli avevano mai dato.

“Andiamo, voglio salutare gli altri”, disse sicuro Brendon, sorridendo a Spencer prima di liberarsi della presa e avvicinarsi al gradino da scalare.

**

Spencer emise un suono stridulo, il gemito di un animale morente, lasciandosi poi ricadere all’indietro anziché finire di attraversare la porticina del cane. Brendon lo guardò confuso.

“Ryan..e Jon…”, balbettò Spencer con una smorfia, “stanno facendo sesso. Sul tavolo! Lo stesso tavolo su cui normalmente mangio!” Urlò poi, scandalizzato. Brendon scoppiò a ridere.

Per qualche minuto rimasero seduti sul pavimento della veranda, fianco a fianco, con Spencer impegnato a ricordare il proprio disgusto per ciò che aveva appena visto poi, dopo quella che sembrò un’eternità, si bloccò di colpo, voltandosi verso Brendon.

“Ok, ho provato a far finta di niente ma non è possibile. Cosa succede?” Il ragazzo arrossì ma scosse la testa, Spencer fece un cenno verso le mani che giocavano nervosamente l’una con l’altra, “so che c’è qualcosa. Cos’è? Cosa ti fa essere così nervoso?” Allungò una mano per prendere quella del compagno ma all’ultimo secondo cambiò idea.

Brendon rimase in silenzio ancora qualche minuto prima di prendere un profondo respiro e cominciare finalmente a parlare, nervoso.

“Ecco, io non ho mai…e…insomma…da sempre mi hanno insegnato che non devo, che è sbagliato e sporco e…”, nascose il volto contro le ginocchia, scuotendo la testa, il nervosismo ora misto all’imbarazzo.

“Non credo sia chiaro cosa mi stai dicendo. Sei…sei votato alla castità o qualcosa di simile?” Chiese confuso e Brendon scosse la testa in fretta.

“No! No! Non ho niente contro il sesso! Mi piace il sesso! Cioè, non l’ho mai fatto ma sono sicuro che mi piaccia! E voglio farlo! È solo che non credo di…come loro…insomma…” Spencer sorrise a quelle parole, costringendo Brendon a voltarsi poggiandogli una mano sulla guancia.

“Bren, ho seguito i consigli di Gabe Saporta, sono diventato grande quanto una tazza, sono finito in una valle sconosciuta piena di fanatici religiosi e sono stato disposto a rendere tutto ciò permanente solo per starti accanto e pensi davvero che l’abbia fatto per il sesso?” Chiese solenne. Brendon scosse la testa.

“No, ma..” iniziò ad obbiettare, ma Spencer lo interruppe.

“Non c’è un ma. Mi sono innamorato di te e sono talmente fortunato che tu abbia deciso di lasciare tutto per me, di seguirmi in un mondo che fino a questo momento per te è stato totalmente spaventoso. Mi hai dato tutto e mi stai dicendo che sei disposto, che vuoi, darmi la tua verginità. Non me ne frega niente di far sesso su un tavolo o in una doccia o qualsiasi altro luogo ti venga in mente. Voglio te Brendon, ti voglio accanto, e in giro per casa e ti voglio grande abbastanza da non temere di schiacciarti se di notte mi giro nel letto. Tutto il resto non importa, per tutto il resto posso aspettare o non averlo o…” Spencer non finì mai la frase perché subito si trovò steso a terra, premuto contro il pavimento dal corpo di Brendon, le labbra sulle sue.

“Ti amo, Spencer”, sussurrò il ragazzo prima di riprendere il bacio, le dita affondate nei capelli del compagno.

**

Spencer si svegliò quando la punta di un piede gli toccò poco gentilmente il fianco. Un piede nudo, chiaramente di Jon. Solo a quella realizzazione si rese conto che, se ancora non era stato schiacciato dal lieve calcio, significava che era tornato delle sue normali dimensioni. Senza neppure respirare si voltò di colpo verso Brendon accanto a lui. Addormentato. Raggomitolato su un fianco come sempre e meravigliosamente, splendidamente grande.

“Avete intenzione di dormire sotto il portico ancora a lungo? Ho fame,” osservò Ryan in tono annoiato, ma un lieve sorriso tradì la gioia di vedere il suo migliore amico e Brendon di nuovo a casa, entrambi di dimensioni normali.

Brendon si mosse appena, svegliandosi lentamente sotto alle carezze incessanti di Spencer. Svogliatamente aprì gli occhi e solo quando vide Jon e poi Ryan si accorse che non sembravano terribilmente alti, grossi, enormi. Si sfregò gli occhi con i pugni e si voltò verso Hobo, seduta accanto a lui. Non appariva più come un mostro che avrebbe potuto ucciderlo con una zampata, solo un cucciolo con cui Brendon avrebbe trascorso volentieri interi pomeriggi a giocare.

“Sono…siamo…ci siamo trasformati!” Quasi urlò, entusiasta, non appena ne ebbe il fiato, stringendosi al collo di Spencer e baciandolo poi rapidamente prima di alzarsi per abbracciare Jon.

Ryan lì accanto tossicchiò, “fame. Cena”, ma quando Brendon gli saltò al collo lo strinse per la vita, sorridendo.

Spencer si alzò arricciando il naso, “cena. Al ristorante. E pagate voi. Poi torniamo a casa e vi guardiamo pulire il tavolo almeno tre volte, col fuoco”, fece un’altra smorfia di disgusto. Jon rise.

“Vuoi davvero passare la tua prima notte con Brendon a guardare me e Ryan che puliamo un tavolo?” Chiese con l’espressione più angelica che riuscisse ad avere trattenendo le risate. Subito Brendon tornò ad abbracciare Spencer.

“Non ci pensa neanche!” Esclamò entusiasta, voltandosi a baciare la guancia del compagno, “ma domattina Ryan ci porta la colazione in camera e pooooi con calma vi guarderemo pulire il tavolo.”

“Scordatelo”, commentò Ryan tranquillo. Spencer ghignò.

“Ry, ho visto te e Jon scopare, me lo devi e poi…non vorrai che racconti a tutti di quell’altra volta che ti ho trovato a far sesso sul tavolo, vero?” A quelle parole Ryan spalancò gli occhi, arrossendo.

“È un ricatto. Sei il peggior migliore amico del mondo”, protestò debolmente, deciso a non rischiare in alcun modo l’umiliazione che avrebbe subito se quella particolare notte fosse stata resa nota. Spencer ridacchiò.

“Ok, parlavamo di cena, giusto? Ho proprio voglia di italiano”, commentò passando davanti agli altri due amici, la mano del proprio compagno stretta nella sua, e strizzando l’occhio a Ryan con fare malefico.

Brendon lo seguì saltellando giù dagli scalini, conscio della presenza degli altri due appena qualche passo indietro, delle dita sicure e tiepide adesso attorno al suo polso, sapeva che non erano un ordine, semplicemente un invito a seguire Spencer, un invito che avrebbe accettato per tutta l’eternità fino in capo al mondo.

Spencer gli sorrise, tirandolo di più contro di se, disperato nel bisogno di sentirlo, di essere certo che Brendon era lì, suo, per sempre. Dietro di loro Jon e Ryan urlarono qualche commento divertito, ma si interruppero per scambiarsi un rapido bacio.

Nessuno dei quattro aveva alcun dubbio di aver preso la decisione giusta. Nessuno dubitava che quello fosse il loro destino, che lo fosse sempre stato, fin dal momento in cui Brendon aveva deciso di allontanarsi da casa ed entrare in un bosco lugubre con un uomo appena conosciuto. La più azzardata decisione della sua vita era stata la migliore.

[FINE]

Date: 2009-11-26 10:35 pm (UTC)
From: [identity profile] raffie79.livejournal.com
che è la cosa più adorabile che io abbia mai letto già lo sai *__* non posso dire altro se non AMAZING, quanto sono pucci hihi. Love it so much!
vedrai quando la traduco!

Date: 2009-11-30 07:11 pm (UTC)
From: [identity profile] aredblush.livejournal.com
Sono in terribile ritardo nel commentare (dato che ho letto la fic già due volte) ma l'importante è che lo faccia, giusto?

OMG è bellissima! Non so da dove cominciare a cantare le tue lodi... Mi piace la trama e come sei riuscita a dare ad ogni personaggio il proprio spazio. Ho un debole per le storie che hanno un elemento magico inserito all'interno di quello che appare come un mondo "normale"; quello che sei riuscita a fare con questa storia fantastico :)
Mi hai quasi spezzato il cuore in certi punti, ma il dolore temporaneo è valsa la pena. Adoro ogni parola, virgola e accento di questa storia!

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